Se già prima del COVID – 19 la condizione dei giovani, nella nostra epoca della post – modernità, si caratterizzava per una situazione afflitta da nuove patologie e nuovi sintomi, oltre a quelli che datavano da alcuni decenni, la pandemia ha fatto da acceleratore, detonatore e moltiplicatore su tutto lo spettro sintomatologico, vecchio e nuovo, configurandosi come fattore letalmente e pervasivamente patogeno sui soggetti di tutte le età, ma soprattutto sui giovani, i cui equilibri si fondano su un precario senso di coerenza che essi cercano in se stessi e nel mondo che li circonda.
La patologia giovanile chiama direttamente in causa il mondo degli adulti in quanto è a essi che i giovani chiedono di se stessi e del mondo, ponendo domande di fronte alle quali gli adulti si sentono spesso disarmati, non riuscendo quasi mai a dare risposte soddisfacenti. Il mondo degli adulti, in sostanza, è spesso impreparato a soddisfare le domande che i giovani rivolgono ad essi: domande sul senso delle cose e soprattutto domande di riconoscimento sul loro diritto, diritto di esserci (Heidegger) nel mondo e di esserci come protagonisti.
È anche in questa impossibilità di dare risposte congrue alla domanda del giovane che il mestiere dell’adulto si mostra difficile, ai limiti dell’impossibilità, ma nonostante ciò l’adulto non può abdicare al suo ruolo di ancoraggio reale e simbolico: giovani quindi, oggi più che mai veri e propri natanti alla deriva e più che mai bisognosi, come suggerisce Edgar Morin, di arcipelaghi di certezze, quali gli adulti si devono mostrare.
I giovani sono, come detto, natanti alla deriva nella nostra società – quella occidentale e della post modernità -, una società liquida (Bauman), nella quale cioè, l’impossibilità che i continui e sempre nuovi stili di vita possano consolidarsi in valori, priva i giovani di solidi riferimenti identificatori cui aspirare e nei quali riconoscersi. L’unica cosa che sembra stabile, della nostra società, pare essere la sua spiccata e sempre maggiore tendenza a porsi come la società del godimento, dell’edonismo; una società che propone non tanto e non più solidi valori, ma modelli effimeri e corrivi, che invece che soddisfare le motivazioni più profonde ed esistenziali dei giovani, ce li restituiscono afflitti da passioni tristi. (Benasayag)
Siamo nel tempo dell’incertezza, del dubbio e dell’obiezione sul futuro, un futuro che da tempo della speranza, quale era fino a pochi decenni fa, si è fatta la dimensione dell’angoscia, presi come tutti siamo, dalla consapevolezza di un peggio che aleggia sotto svariate forme: cambiamenti climatici, deforestazioni e inquinamento inarrestabili, ricerca di energia pulita, guerre mai così vicine ai nostri confini, bomba demografica, precarietà del lavoro. Un futuro quindi vissuto come la dimensione costellata soprattutto di rischi e di pericoli che hanno preso il posto della speranza e della fiducia che noi e i nostri padri riponevamo in esso.
Oggi quindi riflettiamo su come un problema già evidenziatosi da tempo, sia “esploso” con l’avvento della pandemia, per la quale, prima del vaccino e anche dopo, l’unica terapia è stata l’isolamento della persona, la distanza di sicurezza dall’Altro, la relegazione tra le mura domestiche e privato dai legami amicali e dal rapporto reale e non virtuale dei social.
È stata questa forzata rottura dei legami sociali, l’impossibilità che essi si dessero soprattutto fisicamente, vis a vis e non solo virtualmente, a configurarsi come fattore letale per l’equilibrio psichico di tanti giovani, che si sono sentiti perduti, in quanto privati della presenza reale dell’Altro amicale, l’Altro col quale confrontare e condividere il proprio sentire, col quale soddisfare il proprio desiderio di protagonismo, al quale chiedere, magari solo con uno sguardo, il riconoscimento di sé, un riconoscimento pari a quello che il giovane chiede all’adulto.
Se quindi era stata necessario operare già da prima della pandemia con azioni che contrastassero il fisiologico disagio giovanile, ora la necessità si è fatta indispensabilità, impellenza, che impongono azioni essenzialmente di prevenzione, senza per altro escludere intervento di cura per chi è già nella presa del disagio.
L’indispensabilità della prevenzione si dà anzitutto per anticipare e scongiurare ciò che poi si potrebbe configurare come patologia, e ciò per ottemperare al principio etico di affrancare il soggetto dalla sofferenza nonché per favorirne il benessere; ma prevenzione anche per una questione puramente economica, essendo la terapia, come l’esperienza insegna, molto più costosa della prevenzione stessa.
Per questo siamo convinti di collaborare alla nascita di Young Caritas anche a Pavia.